Il filo rosso (sangue) che lega Budoni a Nassiriya: il racconto della strage dopo 19 anni

Un racconto tra Budoni e Nassiryia

Sono trascorsi 19 anni, ma il ricordo di chi quei giorni li ha vissuti è ancora intenso ed il dolore lancinante. L’autore di questo racconto è Gianluca Lombardi, luogotenente dei carabinieri, ora comandante della Stazione dei carabinieri di Budoni ma, all’epoca dell’attentato, in servizio presso la Sezione anti eversione del Ros, il reparto d’eccellenza dell’Arma che indagò su quell’attentato. Fino ad arrivare all’identificazione e alla richiesta di arresto di Abu Omar Al Kurdi, l’uomo che materialmente caricò i camion di esplosivo. Parole scritte con un inchiostro di sangue e lacrime, taglienti come rasoi, che graffiano l’anima e fanno riflettere.

La faccia nella sabbia

Interno giorno. L’interno è quello del carcere romano di Rebibbia, uno stanzino disadorno, che ha però il pregio di stare esattamente sopra la sala colloqui, dove devo ascoltare quanto si stanno dicendo un detenuto anarco insurrezionalista e la sua ragazza. Il giorno è il 12 novembre 2003. Edy, il mio collega (il suo vero nome non me lo ricordo, noi usiamo nomi di battaglia, come la Brigate Rosse), il tecnico che mi mette in condizione di ascoltare tutto quello che dicono al piano di sotto, mi ha dato il via. Ora tocca a me, con le cuffie nelle orecchie, cercare di percepire non solo le parole ma anche i sospiri, il rumore di una penna su un foglio, una frase apparentemente insignificante che invece vuol dire, o potrebbe dire, molto. Potrei farlo dopo, potrei registrare e riascoltare: lo farò, certo che lo farò, ma trovo sia importante anche ascoltare la diretta. Sono così. Convinto che certe emozioni, certe inflessioni, certe impressioni le ascolti, le senti, le percepisci solo nel loro contesto naturale.

Non le sentiresti più due ore dopo, non risentiresti lo stesso rumore pur nel silenzio del tuo ufficio. Edy è entrato ed uscito dallo stanzino quattro o cinque volte: poco fa mi ha fatto il gesto della tazzina, per il caffè. Gli faccio segno che non ne voglio, senza staccare se non per un solo attimo gli occhi dal registratore: mi concentro, guardando il registratore. Mi sembra di vederli, quei due lì sotto, che parlano e rumoreggiano, e a volte tentano anche di amoreggiare. Edy entra ancora. Non faccio in tempo a fare un gesto di insofferenza. Mi alza la cuffia sinistra e mi dice qualcosa nell’orecchio. Poi esce di corsa come è entrato. Non lo sto neanche a sentire, anche infastidito, e continuo a guardare il registratore e ad appuntarmi passaggi di idee, spezzati di vita carceraria, cronache di un amore giovane vissuto con le sbarre alle finestre. Continuo ad aspettare il messaggio subliminale, convinto di dover solo attendere, con pazienza e attenzione. Quel messaggio arriverà. Ma non quel giorno.

Improvvisamente realizzo le parole di Edy. «Una bomba alla nostra base a Nassiriya». Mi strappo le cuffie ed esco in corridoio. In fondo c’è il gabbiotto degli agenti di custodia, la sala d’attesa per gli avvocati è vuota. Lui, l’agente di turno, fissa la radio, legata con una catena al bancone. «Non si sa nulla, solo che ci sono tanti morti». Afferro e accendo il mio cellulare di servizio. Non si potrebbe portarlo dentro, quello personale l’ho lasciato regolarmente nella cassetta di sicurezza, con la pistola e le altre cose. Questo no, questo mi serve per rimanere in contatto con il mondo anche da dentro un carcere, mi serve per le emergenze operative. «Rispondimi a questo cazzo di messaggio». Punto. Senza virgole, interrogativi, faccine e parentesi: il destinatario è Maurizio Lucchesi. L’ho sentito qualche giorno fa, o meglio ci siamo messaggiati qualche giorno fa.

Dopo che al comandante della stazione Carabinieri di Viale Libia è saltata una mano per via di una bomba anarco insurrezionalista. «Prendeteli, cazzo, prendeteli», mi aveva scritto nell’ultimo dei suoi sms. Faccio fatica, una enorme fatica, ma sotto continuano a parlare, parlare, parlare. Mi rimetto le cuffie ma non fisso più il registratore. Ci eravamo visti qualche mese prima, a Roma. Lui era venuto a parlare con il grandecapo, per chiedergli, o meglio per preannunciargli (che è diverso) che avrebbe presentato domanda di trasferimento. Lui è fatto così, se si mette in testa una cosa, non gliela toglie nessuno. Aveva deciso di andar via, ed andare via per lui significava il più lontano possibile. Quando qualche settimana dopo chiesero l’impiego di un sottufficiale del Ros per andare a Nassiriya, il grandecapo lo accontentò. L’ora di colloquio è terminata. A staccare tutte quelle prese, i cavi, il registratore ci penserà Edy. Io prendo la microcassetta, la metto in tasca ed esco. Non mi fermo al gabbiotto: dentro c’è il collega della penitenziaria che ascolta la radio in silenzio, con lo sguardo fisso nel vuoto.

Salgo sullo scooterone e mi tuffo nel traffico della Tiburtina: all’ora di pranzo, in direzione centro, vale il raccordo anulare. Guido e penso, penso e mi fermo al semaforo. Arrivo in ufficio come per incanto, mi ritrovo ad osservare la sbarra che si alza e quasi non mi ero accorto di essere lì. Non guardo nessuno, non apro internet, non accendo la tv. Guardo e riguardo il mio cellulare: penso che Maurizio lo conosco, penso che magari non ha certo il tempo di stare a tranquillizzare me. Non lo farebbe nemmeno con la moglie. È vivo, sta bene, sta portando i soccorsi. La moglie. I bambini. La chiamo o no? Sa già dell’attentato? Lo ha sentito? Gli ha telefonato? Continuo a lavorare in un’atmosfera surreale per tutto il pomeriggio, ogni tanto guardo il cellulare in attesa di un messaggio che non arriva. «Un camion bomba, tanti morti e molti feriti. I morti sono quasi tutti Carabinieri».

Di quel pomeriggio ricordo solo questa sintesi ma non riesco a ricordare chi me l’ha detto. Chiudo tutto e vado a casa. Il mio capo è nel suo ufficio: cominciano ad arrivare notizie più precise, ma non chiedo nulla. A casa mia, a cena, non esistevano mezze misure: o si parlava tanto oppure, quando io e mia moglie stavamo litigati, non si parlava affatto. Quella sera non si sarebbe parlato comunque: ci sono quelle immagini che non permettono di farlo. Lei non sa, non ha realizzato, credo non sappia nemmeno che Maurizio è in missione in Irak. Giro e rigiro il cellulare tra le mani, poi mi alzo da tavola e continuando a fissare la tv, quando capisco che ormai stanno per arrivare le prime lacrime, che non reggo più, le dico che «c’è Maurizio laggiù».

Si gira di scatto e vorrebbe parlare, dire qualcosa, ma mi accorgo che non le esce nulla.

Si bagnano anche i suoi occhi, lei continua a guardare la tv ed io faccio il numero del mio capo. «Lei sa cosa voglio sapere vero?».

È l’unico collega del Ros che è laggiù, è l’unico che conosco personalmente. Con lui abbiamo condiviso le notti sull’autoradio in Umbria, con lui abbiamo passato il giorno di riposo in appostamento per arrestare lo spacciatore di un misero grammo di cocaina, con lui ci siamo presi responsabilità più grandi di noi. È lui che mi ha fatto innamorare del Ros. È lui che di notte, durante gli inverni umbri, mi permetteva di fumare in macchina ma apriva tutti i quattro finestrini. È con lui, sua moglie ed i suoi bambini che ho passato la notte dell’ultimo dell’anno quella volta che non sono potuto andare in licenza. Il capo lo ha capito che voglio sapere soprattutto di lui, solo di lui. Non c’è bisogno di chiedere niente. «È grave, lo hanno evacuato a Bassora in elicottero».

Passa del tempo. Secondi, o forse minuti: non riesco a guardare mia moglie che mi fissa cercando di interpretare la mia faccia. Farfuglio un grazie e dall’altra parte lui mi dice solo: «forza». Chiudo la comunicazione, ma non ho il tempo di pensare a nulla: il cellulare squilla ancora ed è ancora il mio capo, dall’ufficio. «Guarda, volevo solo dirti che io però sono convinto che ce la farà. Me lo sento». Farfuglio ancora un grazie, cerco di capire se sa più di quello che mi ha voluto o potuto dire. Apprezzo, comunque. È la peggiore delle nostre deformazioni, o forse solo un pregio, di molti di noi del Ros quella di non accettare mai passivamente quel che ci viene detto, ma tentare di pesare, ponderare, valutare ogni gesto, ogni pausa, ogni sillaba dei nostri interlocutori, chiunque essi siano. Avrà ragione, comunque, il mio capo. Ce la farà. Antonella. Che faccio ora? La chiamo?

Nella notte riesco a parlare con Federico. Non so come si chiama davvero. Ci siamo visti solo una volta, al volo, ma è in queste occasioni che viene fuori la fratellanza vera, quella che lega, più degli altri e più che con gli altri, quelli che sono nella catena del Ros. Non sa molto più di me, ma riesco a sapere almeno che Antonella ormai invece è stata avvertita e che si sta organizzando per partire ed andare in Germania, dove stanno trasferendo Maurizio, dopo averlo evacuato a Bassora. Io e Federico decidiamo di organizzarci per partire immediatamente, senza troppe formalità. Prendiamo due giorni di permesso, troviamo un volo a basso costo e partiamo domani stesso anche noi. Dobbiamo vedere, dobbiamo vederlo, accertarci che sia vivo, stare vicino ad Antonella. La mattina dopo è durissima arrivare in ufficio, la macchina organizzativa è già in moto dai primi minuti dopo l’attentato. Arriveranno le salme, ed i feriti, l’indagine toccherà a noi. Dovremo interrogare i sopravvissuti, almeno quelli in grado di essere interrogati. Dovremo ricostruire l’attentato, quei secondi. E dovremo farlo subito, non appena avranno messo piede in Italia. Federico, intanto, mi chiama a metà mattina.

«Ci ho parlato», dice quando si apre la comunicazione. «Come, ci hai parlato? Come hai fatto?». Mi sembra incredibile. Mi siedo sulle scale d’ingresso dell’Istituto di Medicina Legale. Anche qui dovrà essere tutto pronto per le autopsie, per i riconoscimenti dei cadaveri, per l’accoglienza delle famiglie.

L’aspetto organizzativo non mi spaventa: nel 1999, dopo il disastro aereo di Pristina, ho visto di peggio. «Il telefonino, ha salvato il telefonino. Era debolissimo, ma ho sentito la sua voce. Ho provato a fare il numero e squillava, mi ha risposto Antonella, poi me lo ha passato. Anto ha detto di non andare. Appena è possibile senza troppi rischi per lui lo trasferiscono in Italia, forse domani o dopodomani». Guardo fuori: c’è la stessa pioggia leggera che il giorno dopo, all’imbrunire, illuminata dalla luce blu intermittente dei lampeggianti delle nostre autoradio e delle nostre moto, saluterà le salme dei martiri di Nassiriya. Uno di quei giorni in cui è bello passeggiare sotto la pioggia, così che le lacrime si mischiano alle gocce. E puoi piangere in santa pace, senza che nessuno se ne accorga.

Poi, nei giorni che seguirono, Maurizio fu solo la felicità di saperlo vivo in mezzo ad un oceano di dolore. Intorno a me i parenti di quei ragazzi morti laggiù, con la faccia nella sabbia. Ricordo le loro facce, di ognuno di loro. Ricordo le facce di ogni padre, di ogni madre, di ogni moglie, di ogni sorella o fidanzata, di tutti i figli. Ho respirato il loro dolore, ho offerto il mio braccio per accompagnarli dentro un’angusta stanzetta a guardare quel che rimaneva dei corpi dei loro cari. Ho camminato su via Ostiense a fianco di quei camion che sembravano essere silenziosissimi, spinti non dal motore ma da un popolo che li seguiva. Ho alzato gli occhi ed ho visto il Tricolore ad ogni finestra.

Ho visto un ragazzo con il gesso e le stampelle seguire il corteo funebre fino a sfinirsi. Ho letto i biglietti che l’Italia ha scritto per loro. Ho visto la folla fuori dalla basilica. Ho sentito i ragazzi della Brigata Sassari che cantavano Dimonios, mentre davanti mi sfilavano le bare portate sull’altare a spalla da altri ragazzi con la divisa addosso e le lacrime agli occhi. Ho visto Otto, il pastore tedesco di Maurizio, fiondarsi dentro l’ambulanza percorrendo vialetti di un aeroporto che non aveva mai visto prima. Ho visto il terrore negli occhi di una giovane collega cui sorella morte è passata di fianco. Ho abbracciato Antonella in uno stupido corridoio con le pareti asettiche e celesti, e mi sembrava volesse non lasciare più la presa. E ho sentito le sue lacrime penetrarmi nel cuore. Ho ascoltato le testimonianze dei miei colleghi, e le ho trascritte su un verbale come se scrivessi la lista della spesa. Ho abbracciato mio figlio mentre dormiva, nella notte, e gli ho giurato che il suo papà non morirà mai. Ho accarezzato il viso dolce di mia figlia che dormiva, e gli ho giurato che un giorno di questi prenderò un permesso e l’accompagnerò a scuola.

Ho visto un vecchio parà indossare ancora il suo basco solo per mettersi sull’attenti davanti a quelle bare. Ho visto un bambino con la divisa del suo papà.

È successo tutto in quei giorni.

Giorni che ora, ancora, faccio fatica a rimettere in ordine. Di cui non ricordo più la sequenza.

Giorni che vorrei dimenticare, che non vorrei mai aver vissuto.

Giorni che mi sono rimasti dentro, con la sensazione di essere anch’io con la faccia nella sabbia.

Racconto vincitore del premio letterario “In memoria dei caduti di Nassiriya” con la seguente motivazione: “La profonda sensibilità di un recupero memoriale, vissuto quale bruciante realtà sempre presente, si fonde con l’originalità dell’impostazione iniziale che funge, in modo armonico, da valvola di apertura. La competenza narrativa, sostenuta da un lessico scorrevole ed appropriato, sincopato nelle giuste pause, suggeriscono il messaggio forte di una grande tragedia della storia in cui il lettore affianca l’autore nell’ansia drammatica di una condivisione sofferta. L’epilogo del racconto, condotto per flashback ad ampio raggio, riassume con buona tecnica la molteplicità delle componenti esistenziali legate alle gravi ferite dell’umanità. La giuria ritiene il racconto degno del primo premio.”

Olbia 24 novembre 2007

Racconto selezionato, nell’ambito della sezione racconti del Premio Internazionale Quasimodo, per la pubblicazione nell’antologia edita da Aletti Editore

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