Un Primo maggio sotto tono che sollecita le coscienze

Il Primo maggio di Olbia visto da Filippo Sanna, direttore Agci Gallura Nuoro

Un 1° maggio insolito per tanti, me compreso, che da circa 10 anni, partecipavo – in principio da semplice spettatore e fruitore dell’evento, poi da protagonista attivo e propositivo, da cooperatore – al 1°Maggio Olbiese sui verdi prati del Parco Fausto Noce.
Per ragioni che mi sfuggono – pur avendone letto qualcosa sulle testate locali e regionali – non abbiamo potuto ripetere la bella esperienza di popolo, di incontri, eventi culturali, tavole rotonde, giochi e animazione sociale, nella piacevole ed ospitale cornice del parco cittadino, come nelle precedenti edizioni svoltesi dal 2010 in poi.
Un altro evento mi ha provocato e suscitato alcune riflessioni, che vorrei condividere con chi mi legge.
Non presidiando come di consueto il gazebo della cooperazione laica ed indipendente, ho potuto partecipare alla messa in memoria di san Giuseppe lavoratore, da sempre proposta alle associazioni datoriali, ai sindacati e alle autorità pubbliche presso la Chiesa parrocchiale di san Michele Arcangelo, da don Theron e dal responsabile della Pastorale del Lavoro, ruolo attualmente svolto magistralmente da don Sandro Fadda.
Anche qui, nonostante i vari inviti diffusi via social, la partecipazione è stata tutt’altro che numerosa: forse per le pessime previsioni meteo, forse per la concomitante inaugurazione della terza edizione della Fiera Nautica di Sardegna, nelle amene acque di Porto Rotondo, alla presenza di varie autorità, in primis il nuovo assessore regionale al turismo.
Insomma 𝘂𝗻 𝟭° 𝗺𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝗶𝗻 𝘁𝗼𝗻𝗼 𝗺𝗶𝗻𝗼𝗿𝗲: 𝘀𝗶𝗮 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗺𝗮𝗻𝗰𝗮𝘁𝗮 𝘃𝗲𝗿𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 “𝗹𝗮𝗶𝗰𝗮” 𝘀𝗶a 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘀𝗻𝗼𝗯𝗯𝗮𝘁𝗮 𝘃𝗲𝗿𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗰𝗿𝗶𝘀𝘁𝗶𝗮𝗻𝗮.
Durante la sua appassionata omelia la domanda di don Sandro su chi avesse qualche conoscenza del 𝗖𝗼𝗺𝗽𝗲𝗻𝗱𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗗𝗼𝘁𝘁𝗿𝗶𝗻𝗮 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗖𝗵𝗶𝗲𝘀𝗮 lasciava la platea ammutolita; chi vi scrive, astenendosi dal sollevare la mano per pudore, andava con la memoria all’esperienza fatta 40 anni prima, quando in un paese dell’interno, con pochi amici coraggiosi si dava vita in un centro culturale (realtà ormai in disuso se non nelle grandi città) proprio ad un percorso di approfondimento personale e diffusione pubblica, con fior di relatori, dei principali contenuti della dottrina sociale: dall’intervento di Leone XIII sulla realtà socio-politica del suo tempo l’enciclica «Rerum novarum» alle tre grandi Encicliche — Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis e Centesimus annus —, di Papa Giovanni Paolo II (oggi santo) che costituiscono tappe fondamentali del pensiero cattolico sull’argomento.

Tutta questa premessa per dirvi della delusione e della preoccupazione crescente sia per le mancate occasioni di confronto e riflessione nell’immediato ma, soprattutto, per la sensazione del venir meno nelle comunità in cui viviamo dell’importanza di dedicare – almeno un giorno – ad una seria riflessione sul valore del lavoro.

Certo, mi si può obiettare che della parola “lavoro” son piene le piazze, i talk televisivi, i provvedimenti del Governo, seminari e convegni. Ma in tali casi si tratta di norme, rivendicazioni, dati e numeri. Quando parlo del “valore del lavoro” intendo che mi piacerebbe sentire qualche voce che richiamasse al senso più profondo di questa espressione, così come nelle encicliche di GPII Il lavoro è un bene dell’uomo _ è un bene della sua umanità _, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, «diventa più uomo» (Laborem Exercens) oppure secondo quanto sostenuto da Luigi Giussani «…il lavoro è l’espressione totale della persona […] in quanto l’uomo è rapporto con l’infinito, con l’eterno, col Mistero, […] allora il lavoro prende veramente tutto e tutte le espressioni della persona. Si chiama lavoro tutto ciò che esprime la persona come rapporto con l’infinito. Perché per il muratore o il minatore i gesti che fanno, mettendo su un mattone o zappando un sotterraneo, sono rapporto con Dio: per questo devono essere rispettati, per questo devono essere oggetto di giustizia reale e di amore anche, e quindi di aiuto» (L. Giussani, L’io, il potere, le opere).

La mia vita, soprattutto quella professionale è stata – da subito – orientata e alimentata dal dare credito a questi concetti, ascoltati nel tempo della giovinezza, quando il cuore non è ancora incrostato dai sedimenti del cinismo, della rassegnazione, dell’opportunismo, dall’indifferenza apatica dell’età adulta.

Fra gli scritti più intensi e suggestivi, fonte di continua ispirazione, e sostegno nei momenti di crisi (quando ci si sente non valorizzati nella professione o quando agli sforzi non corrispondono adeguati risultati) ho sempre avuto presenti le parole di un noto brano di Peguy, il quale in un suo famoso saggio, L’Argent, la modernità è rappresentata dal denaro: oggettivo e spersonalizzante, esclusivamente relazionale, potente e debole allo stesso tempo. Il denaro è staccato dal lavoro e separato dalla terra, diventando inquieto e agitato, sradicato.

Ma, oltre alla critica su concetti economici quel che mi ha sempre appassionato è quella parte della sua opera che segna la distanza dal concetto di lavoro che si esprime per la maggiore nelle disquisizioni odierne.

La distanza del nostro tempo distratto dalla descrizione del lavoro cristiano: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali». (Peguy, L’Argent).

Ritornando al valore delle riflessioni proposte dalla Dottrina Sociale, posso affermare senza timor di smentita che è lì che è germogliata in me l’attenzione al fenomeno cooperativo, a quel ruolo del movimento cooperativo come venne fortemente riproposto nella sua veste originale di protagonista imprenditoriale quale “terza via” nello sviluppo economico del paese, o più semplicemente come alternativa sia al capitalismo privato che al sistema delle pubbliche imprese come venne affermandosi fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ‘80.

Dopo questa – forse noiosa – dotta dissertazione, ricca di citazioni importanti, ritorno alle ragioni per cui ho deciso di seguire l’impulso a scrivere, condividere e proporre queste riflessioni: perché il 1° maggio – e quindi una concezione alta del lavoro – sta perdendo attrattiva, nella partecipazione e nei modi nei quali porvi la giusta attenzione ai valori da esprimervi? Perché, ad Olbia, ci siamo rassegnati a rinunciare a questo evento che nelle scorse edizioni aveva dato prova di essere forte momento di coesione fra parti sociali di diversa ispirazione politica, economica e civile? Forse tale decisione è stata il frutto di qualche scoria della recente campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale della Sardegna? Sarebbe una ben miope rivalsa.

Ma, al di là dei localismi sul tema 1°maggio e lavoro, sconforta l’assenza di dialogo e di confronto sulle ragioni profonde perché, TUTTI, dovremmo aver a cuore far crescere una coscienza collettiva di maggior impegno a ridare dignità a queste tematiche, fondamentali per la vita di ciascuno di noi che – mediamente – trascorriamo un terzo della nostra giornata a svolgere un mestiere o una professione, senza dimenticarci di coloro che in assenza di occupazione, oltre a non poter progettare il proprio futuro in termini di sviluppo personale, creazione e/o mantenimento di una famiglia, realizzazione dei propri talenti – innati o frutto di studio e formazione – non possono aspirare alla realizzazione di tutta la propria umanità.

In conclusione faccio mie le recenti parole del Presidente di AGCI Giovanni Schiavone che aggiunge: “Il mondo cooperativo partecipa a questa ricorrenza storica con le carte in regola essendo uno dei sistemi virtuosi del nostro Paese che genera lavoro e occupazione. Obiettivo questo che va sostenuto per contrastare la disoccupazione e la precarietà per conseguire benessere, giustizia sociale con riduzione delle diseguaglianze.”

Filippo Sanna direttore AGCI Interprovinciale Gallura Nuoro

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