11 anni fa la tragedia del ciclone Cleopatra a Olba
Sono passati 11 anni dal ciclone Cleopatra e da quel 18 novembre 2013, una data che Olbia non potrà mai dimenticare. Era una sera di pioggia incessante, un temporale che sembrava solo un altro dei tanti che colpiscono l’autunno gallurese. Ma presto si trasformò in qualcosa di devastante, un ciclone che cambiò per sempre il volto della città e le vite di chi l’abitava. Venne chiamato Cleopatra, nome casualmente in cima alla lista di un qualche centro meteo. Eppure, il nome ha un retrogusto ironico e amaro. Cleopatra, la donna che regnò sull’Egitto con intelligenza e carisma, il cui mito attraversa i secoli, fu associata a una tempesta che non portò splendore, ma distruzione. Quel nome regale divenne il simbolo di una tragedia: l’acqua travolse le strade, inghiottì vite, lasciò dietro di sé morte, dolore e desolazione.
L’acqua delle colline si riversò su Olbia, invadendo ogni alveo e portando a valle ogni genere di detrito che contribuì a tappare i ponti assolutamente inadeguati a ricevere una simile quantità di acqua. Le strade si allagarono rapidamente. Tutti pensarono che si sarebbe trattato di svuotare cantine allagate o pulire le strade. Invece, quella sera, in poche ore (alle 21:30 l’alluvione aveva perso la sua forza), interi quartieri, costruiti su terreni che un tempo erano fiumi e paludi, tornarono alla natura. Portando con sé case, strade, vite. Le strade divennero fiumi, le case prigioni, le automobili bare trascinate da una furia incontrollabile. E in quella devastazione ci furono vite strappate, famiglie spezzate, volti che Olbia non dimenticherà mai.
L’eco di quel tragico 18 novembre 2013 risuona ancora nei luoghi del disastro, che ha lasciato cicatrici profonde nei suoi cittadini.
Cosa resta a Olbia 11 anni dopo il ciclone Cleopatra?
In questi anni, molto è stato fatto. C’è stata la demolizione di elementi idraulici definiti incongrui e pericolosi per la sicurezza idraulica della città. Come il viadotto Salso, alla confluenza del Rio Gadduresu con il Rio S’Eligheddu, il ponte del Fausto Noce – sostituito dal ponte in via Figoni a prova di alluvione, il ponte sulla SS127. I canali vengono costantemente puliti, gli argini manutenuti per garantire la sicurezza. Eppure, alcune ferite del territorio restano aperte. Come la frana di Monte Pino, simbolo di una ricostruzione incompleta e di uno scaricabarile inaccettabile. Come quella di Monti a Telti, a Raica, teatro di morte per Francesco ed Enrico, ancora chiusa al traffico. In via Belgio, dove l’acqua si prese tutto in quel tragico 18 novembre 2013, c’è un piccolo altare. È lì, discreto ma impossibile da ignorare. Le foto e una targa con i nomi di Patrizia e Morgana. Madre e figlia, strappate alla vita dalla furia dell’alluvione. Un angolo in cui il dolore si raccoglie e diventa preghiera, un monito per chi passa. Un segno tangibile che quelle vite, seppure spezzate, continuano a esistere nel ricordo.
Problemi ancora attuali
Il canale Tannaule, causa incolpevole della tragedia nella tragedia, è stato recintato, messo in sicurezza. Ma le opere a monte e a valle sono rimaste invariate, come il ponte scatolare e il ponticello della ferrovia, che però vengono continuamente monitorati. Lungo la via Amba Alagi il sottopassaggio ferroviario è realizzato lungo il percorso di un canale intubato. Qui, al verificarsi di eventi atmosferici importanti, è necessario chiudere al traffico la strada. La sezione dei tubi non è sufficiente a garantire il deflusso dell’acqua. Infine, il recente episodio dell’auto travolta e praticamente sommersa dall’acqua a una ventina di chilometri da Olbia, mentre cercava di attraversare il rio San Giovanni. Era tracimato a causa dell’intensa precipitazione e ci riporta alla mentre che il rischio idrogeologico è un nemico che non permette distrazioni.
La commemorazione
Il sindaco Settimo Nizzi ha invitato la popolazione a presenziare alla commemorazione che si terrà lunedì 18 novembre alle ore 16:30 presso il monumento eretto in memoria delle vittime. Da un anno, infatti, sul lungomare Josèmaria Escrivà de Balaguer, 9 monoliti di granito si ergono come guardiani silenziosi. Solidamente ancorati al terreno, essi richiamano immediatamente alla mente le “perdas fittas”,i menhir della Sardegna, monumenti ancestrali che da millenni sfidano il tempo e raccontano storie di antichi popoli.
Come i menhir, i monoliti dedicati a Patrizia, Morgana, Francesco, Enrico e alle altre vittime sono un simbolo di memoria e resistenza. Raccontano una tragedia che ha segnato la città, ma al tempo stesso custodiscono la speranza che quel ricordo rimanga vivo, perpetuo, indelebile, proprio come le pietre sacre della nostra terra.
Nel granito c’è la forza della Sardegna, e in quel monumento c’è la promessa che le vite spezzate dall’alluvione non saranno mai dimenticate, così come i menhir continuano a parlare a chi sa ascoltare.